venerdì 11 aprile 2014

As I lay dying - Mentre morivo - William Faulkner


Ci sono autori ed opere che riescono a trasformare la tua semplice ed ordinaria esperienza di lettura in qualcosa di assai più grande. Te ne accorgi quando sei magari a pagina 4, ancora non hai capito niente di ciò che stai leggendo ma ti stai già ponendo decine di domande, ed hai iniziato a tracciare un fitto reticolo di collegamenti, con le tue conoscenze, con il tuo vissuto, con ciò che hai visto, letto o sentito. Faulkner è uno di questi autori. "Mentre morivo" mi ha portato lontano, molto lontano, ben oltre l'immaginaria contea di Yoknapatawpha. Proverò a riportare qualche appunto di lettura, così, non fosse altro che per il gusto di mostrare la mia passione per l'opera di Faulkner a chi capiterà per caso in queste pagine.
"Mia madre è un pesce"
Le 5 parole che compongono il capitolo 19 del romanzo "Mentre morivo" (As I lay dying) di William Faulkner sono affidate al flusso di coscienza del piccolo Vardaman, il più giovane tra i figli di Addie e Anse Bundren. 5 parole per rappresentare come il bambino vive la morte della propria madre, attraverso un meccanismo proiettivo sulla base del ricordo del suo primo "contatto" con la morte (lo squartamento e la pulitura di un pesce). E' curioso che la proiezione avvenga verso una forma archetipica come l'ichthys (ἰχϑύς = pesce).

Riprendendo un passo del "De Baptismo" dell'apologista Tertulliano (160 - 220 d.C.):
"Noi piccoli pesci, che prendiamo nome dal nostro ICHTHYS, Gesù Cristo, nasciamo nell'acqua del battesimo e solo rimanendo in essa siamo salvati."
Quello di Addie Bundren è un viaggio "escatologico" che prende la forma di un atipico "on the road", dove le voci dei tanti personaggi si intrecciano in un complesso contrappunto di coscienze, che si scoprono al lettore in un lento ma costante processo conoscitivo - potremmo nuovamente chiamare in causa le tesi del Decostruzionismo, che sarà però successivo a Faulkner - assimilabile a quello del giovane Vardaman, per cui proprio il viaggio è l'occasione per essere iniziato all'orrore umano: la decomposizione della madre, il rogo appiccato dal fratello Darl in un fienile, la prostituzione della sorella Dewey Dell, i dolori lancinanti del fratello Cash per una frattura ad una gamba, l'internamento di Darl in un manicomio. L'unica voce narrante che rimane staccata dal racconto polifonico dei Bundren è Jewel - frutto dell'adulterio di Addie - per cui parlano però tutti gli altri, divenendo così indirettamente la presenza forse più importante del romanzo. Nel solo personaggio di Jewel (confesso, sul nome che inizia per "Jew" ho fatto più di una riflessione) si possono rintracciare i riflessi classici del mito di Edipo (nel suo rapporto con la madre) e l'eco biblico dell'odio fratricida fra Caino e Abele (Jewel vive in costante conflitto con il fratello Darl).

Il viaggio di Addie Bundren è una discesa verso gli inferi, rappresentata nel rogo al fienile o nello stesso titolo dell'opera, che prende spunto dal verso (nella versione inglese) "As I lay dying, the woman with the dog's eyes would not close my eyes as I descended into Hades" tratto dall'Odissea, in cui Agamennone narra ad Ulisse il delitto compiuto da Clitennestra.
Forse il viaggio di Addie Bundren è anche assimilabile alla passione di Cristo (Addie, il Pesce, l'Ichtys), dove però non c'è redenzione né resurrezione (parodiata con sottile ironia nel finale con la comparsa della nuova Mrs. Bundren). Anche l'anelito della salvezza (riprendendo Tertulliano) sfugge nel momento in cui le acque del fiume (simbolo di salvezza) non riescono a trascinare via il feretro, riportato a riva da Cash (l'episodio costerà a Cash la perdita di una gamba).

Nel viaggio, sospeso temporalmente in un lunghissimo ed angosciante "As" ("Mentre" in Italiano), William Faulkner riesce sapientemente ad alternare i toni del dramma e della commedia, sfociando spesso in una sorta di tragica farsa, tratto che accomuna molte delle sue opere.

Links e curiosità:

William Faulkner, The Art of Fiction No. 12 - La storica intervista di Jean Stein per la rivista Paris Review - Anno 1956

James Franco ha diretto un adattamento cinematografico del romanzo "Mentre morivo". Il film "As I lay dying" è stato presentato a Cannes nel 2013

giovedì 6 marzo 2014

È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore

Premessa storica quasi inutile

"... que les futurités littéraires se mettent à l'œuvre. Un art nouveau, quintessencié, plus impalpable encore sortira de ce gâchis chaotique."

Così la rivista "Le Decadent" nel 1886 presenta la sua idea di rivoluzione culturale, nell'ottica di un totale sovvertimento della cultura borghese.
Illustri precedenti avevano già minato alla base i modelli culturali egemoni in Europa: nella musica, a Richard Wagner erano bastate le prime 4 battute dell'ouverture dell'opera "Tristan und Isolde"; tra i filosofi Arthur Schopenauer e Søren Kierkegaard avevano messo in crisi l'intero apparato dell'idealismo hegeliano; in letteratura e poesia, basti pensare a Charles Baudelaire, al tardo Flaubert e ad Edgar Allan Poe; nella pittura, dopo il rinnovamento avvenuto con il Realismo, fu la volta degli Impressionisti. Poi vennero Thomas Mann, la Scuola di Vienna, Freud e Jung, e tutto il resto.

La rivista "Le Decadent" uscì regolarmente fino al 1889, ma fu sufficiente questo lasso relativamente breve di tempo per dare l'avvio ad una nuova epoca nella storia della cultura europea (e non), che prese appunto il nome di "Decadentismo". Definizione fumosa ed imprecisa per un movimento che si ramificò durante tutto il XX secolo - con evidenti lasciti anche in avvio del terzo millennio - nelle avanguardie artistiche e letterarie, nelle correnti filosofiche, nella politica, ed almeno a livello teoretico anche nella scienza.

All'interno della biblioteca virtuale online del progetto francese Gallica sono sfogliabili diversi numeri della rivista "Le Decadent".

Non si è capito, ma anche io voglio parlare della grande bellezza

Non avrei mai voluto scrivere nulla sul film "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino. E' un'opera che non ho apprezzato, questione di gusti, sono solito scrivere solo di cose che mi piacciono. Ho aspettato infatti 8 mesi prima di decidermi. Mi soffermerò brevemente solo su alcuni singoli aspetti che hanno catturato la mia attenzione, nell'apparentemente inarrestabile fluire di lodi e critiche al film, iniziato a maggio 2013 (l'esordio non particolarmente felice a Cannes) e culminato in questi giorni con la premiazione dell'Academy. Un polverone mediatico catalizzato da abili mosse commerciali, tra le quali spiccano la prima TV su un canale commerciale in prima serata, ed un controverso spot per un'automobile uscito poche ore dopo l'assegnazione della prestigiosa statuetta, che vede il regista come testimonial.
Provo a partire, nella mia sintetica analisi, dai risultati di una normale ricerca sul web con le parole chiave "La grande bellezza" o "The great beauty", per portare l'attenzione sulla ricorrenza dei termini "decadenza" o "opera decadente" nei titoli di giornali, blog, riviste, usati sia dai sostenitori che dai più aspri detrattori. Da altre parti qualcuno è andato un po' più in là ed ha scomodato "L'educazione sentimentale" di Flaubert. Strani accostamenti, in quanto l'estetismo della direzione della fotografia, le tecniche di ripresa sofisticate e compiaciute, le altisonanti frasi ad effetto della voce fuoricampo, cozzano con quella volontà (forse neanche troppo sincera) di mettere sotto scacco i modelli culturali egemoni nella nostra società. La poetica di Sorrentino, intrappolata nel vezzo stilistico, si perde in un manierismo che può trovare assonanze magari solo con il Decadentismo italiano di D'Annunzio, che dall'europeo prende in prestito solo gli aspetti più superficiali.
Nell'impianto filosofico, il film si muove intorno all'autocommiserazione solipsistica dei personaggi (aride raffigurazioni di una mondanità predestinata al male di vivere), il rifiuto dell'altro da sé ("Altrove c'è l'altrove"), il dannunziano rifugiarsi nel "trucco" di una patinata ed irreale gioventù perduta, l'eccessiva sinteticità nell'introdurre il tema sacro, con il personaggio non compiuto della santa. Insomma, se dobbiamo scomodare Kierkegaard, facciamolo sul serio, ed andiamoci a vedere "Ordet" di Dreyer; "Le luci d'inverno" di Bergman; il citatissimo "La dolce vita" di Fellini, o l'inettitudine sveviana di un altro personaggio "neo-decadente" del cinema dei decenni passati quale era "Le professeur" di Valerio Zurlini.

Pertanto...

Cosa non mi è piaciuto in "La grande bellezza":

1) L'aridità dei personaggi (ad esclusione del protagonista Jep Gambardella, interpretato magistralmente da Toni Servillo)
2) I riferimenti all'immaginario felliniano: cicogne, suore, altalene, nani e ballerine
3) La scena del ballo sul prato inquadrata dall'alto
4) Il cardinale esperto di cucina
5) Gli eccessivi movimenti ed ammiccamenti della macchina da presa
6) L'uso della voce fuoricampo
7) La fotografia di Bigazzi
8) Il montaggio alternato fra la santa che sale le scale ed il flashback: questa è un'integrazione degli ultimi giorni. La lista era già pronta tempo fa, ma lo scorso lunedi ho rivisto al cinema "Il Padrino". Ecco, nella scena del battesimo Coppola ci dà una dimostrazione dell'efficacia narrativa di un vero montaggio alternato.

Cosa mi è piaciuto in "La grande bellezza":

1) La fotografia di Bigazzi
2) La capacità di Sorrentino di costringerti a parlare di lui. Il cinema di Sorrentino desta interesse, è a suo modo popolare in modo non convenzionale, divide e fa parlare di sé. E questo è un merito.
3) La scelta delle musiche, sia nella loro funzione diegetica che in quella extra-diegetica, dove è possibile rintracciare un uso metafisico del commento musicale, in linea con lo stile di Terrence Malick di "The tree of life" e "To the wonder".
4) L'incipit girato al Gianicolo



giovedì 23 gennaio 2014

Rayuela - Il gioco del mondo

"Le parole che utilizzi, «un enorme imbuto», «il buco nero di un enorme imbuto», ecco, Rayuela è esattamente questo, è ciò che ho vissuto in tutti questi anni e che ho voluto provare a raccontare – con il tragico problema che appena questo tipo di cose si dice, scatta il malinteso, tutto l’orrore del linguaggio («le cagne funeste» – le parole) che preoccupa Morelli."
Ho estratto questo breve testo da una lettera che Julio Cortazar inviò nel luglio del 1962 a Francisco (Paco) Porrúa, primo editore del romanzo "Rayuela". Ho avuto il piacere di immergermi in quel "grande imbuto", secondo le indicazioni fornite dall'autore nella breve guida che fa da introduzione al romanzo:

1) Ho dapprima letto il romanzo secondo l'ordine lineare dei capitoli
2) Ho riletto il romanzo secondo l'ordine suggerito a pié pagina dall'autore
3) Ho parzialmente riletto il romanzo scegliendo io l'ordine dei capitoli

In "Rayuela" Cortazar distrugge canoni e regole della forma romanzo creando - in ottica decostruzionista - una sorta di ipertesto, o ipercosmo letterario, popolato da miriadi di personaggi, psicologie e flussi di coscienza, metatesti e citazioni, virtuosismi grammaticali (tra cui, l'invenzione del gliglico come lingua dell'intimità fra Horacio e la Maga) ed accorgimenti tipografici, strade cittadine e stanze mai in ordine. Un ipertesto dove i collegamenti non vengono risolti attraverso soluzioni semantiche, ma attraverso complesse tecniche di introspezione psicanalitica nelle quali è impossibile non scovare una minuziosa devozione dell'autore alle teorie di Carl Gustav Jung, Heidegger, Derrida.
Così, l'esperienza di lettura diventa un gioco, impegnativo, ma del resto non stiamo parlando di un gioco qualsiasi ma del "gioco del mondo", la Rayuela appunto, o - come la chiamavamo noi da bambini qui in Italia - la "Campana". Il "Mondo" è un disegno fatto con il gesso posizionato nel cortile di un manicomio. Il mondo è governato dal caos (il sassolino che deve andare ad occupare le varie caselle del gioco). Di contro, l'"Io" cosciente esce dai confini spazio-temporali, moltiplicandosi in Horacio Oliveira (protagonista), Traveler, la Maga, Talita, Gekrepten, ed infine negli scritti di Morelli nella terza parte del romanzo, dal titolo "Da altre parti". Nel romanzo, due "morti" esemplari, quella dello stesso Morelli, investito da un'auto, e quella di Rocamadour, figlio della Maga, morto per negligenza della madre in una delle pagine più oscure e tragiche. Sicuramente non a caso, Rocamadour è una località della Francia nota per essere meta di pellegrinaggio e penitenza.

E' difficile quanto inutile decodificare l'intero romanzo ed i suoi innumerevoli riferimenti e simbologie.
E' altresì inutile dilungarsi sulla portata dell'opera all'interno della letteratura del XX secolo.
Pertanto, considerando che quest'anno celebreremo i 100 anni dalla nascita dell'autore, coglierei l'occasione per invitare tutti ad una lettura delle vicende di Horacio Oliveira in Rayuela - Il gioco del mondo.

lunedì 4 novembre 2013

"Luce d'agosto" di William Faulkner

Afferma William Faulkner a proposito del suo romanzo "Luce d'agosto": «Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica». In "Luce d'agosto" l'autore prende le vicende di un'umanità apparentemente ordinaria, meschina, miserevole, e le sposta con intuizioni ed invenzioni letterarie - quelle invenzioni che ti fanno dividere la letteratura contemporanea tra un prima e un dopo Faulkner - sul piano del mito, dove le storie dei singoli si intrecciano e si rincorrono, in una costruzione della storia che si compie di pagina in pagina, di paragrafo in paragrafo, rivelata non da un autore che si pone al di sopra della storia, ma dal vocìo, dal racconto, dalle confessioni dei singoli personaggi, che creano a loro volta miriadi di meta-storie. Forze meta-narrative che vanno a tracciare i destini contrapposti di Joe Christmas, supremo anti-eroe che discende nell'Ade, e di Lena Grove, simbolo di rinascita nel perpetuo ripetersi della creazione.

Ancora una volta, leggo Faulkner ed ho l'impressione di trovarmi di fronte ad un'opera diversa, totale, universale.

Ancora una volta, le mie letture acquisiscono una consequenzialità che odora un po' di mistero. Acquistato in libreria quasi casualmente, ho letto "Luce d'agosto" subito dopo "Sorgo rosso" di Mo Yan, ed ho trovato tra i due autori una straordinaria continuità (Mo Yan ha messo Faulkner al primo posto fra gli scrittori che più hanno influenzato la sua opera).

Rispetto all'Adelphi in mio possesso, mi piacerebbe reperire "Luce d'agosto" nell'edizione Mondadori, quella con la prefazione di Fernanda Pivano e la traduzione di Elio Vittorini, anno 1972.

lunedì 19 agosto 2013

Mo Yan - Sorgo rosso - Mitologia della "canaglia"

Più volte Mao Tse-Tung usò il termine "canaglia" riferendosi al popolo cinese che non si riconosceva nei valori fondanti della Repubblica Popolare. Quella canaglia diventa protagonista di "Sorgo rosso" del premio Nobel alla letteratura 2012 Mo Yan, in una celebrazione eroica che si spinge fino alla mitopoiesi: Mitopoiesi della canaglia appunto, o creazione di un anti-mito, rappresentata dalla figura del comandante Yu e sintetizzata nella trovata letteraria magistrale della battaglia tra uomini e cani, dove i cani fanno strategia militare ed acquisiscono coscienza al pari degli uomini, se non meglio. 
La destrutturazione della narrazione rende la lettura non facile, ma ripaga ampiamente nel fascino restituito dallo scorrimento di tanti piani narrativi intorno ad un unico magma storico che si estende per gran parte del XX secolo, toccando la sanguinosa guerra sino-giapponese e la nascita della Repubblica Popolare Cinese. 
Con un io narrante mai agente né pensante, se non nel finale e nel momento in cui un fulmine riapre la fossa comune in cui sono sepolti uomini, donne, giapponesi, cinesi, e logicamente cani: insomma, quel che resta di un mondo eroico seppellito dall'egemonia culturale esercitata dai modelli borghesi europei (letterariamente, dalla concezione borghese del romanzo).
Tutta la vicenda si svolge fra i confini della regione di Gaomi. Lì, nella regione di Gaomi, un tempo cresceva il sorgo rosso, oggi sostituito dai "mostruosi fusti" di un sorgo "ibrido". Ibrido come quella cultura filo-occidentale che la nuova Cina ha adottato a modello, sostituendola con le sue immense e prestigiose tradizioni. E non a caso Mo Yan è il fondatore del movimento letterario della Ricerca delle Radici.

Il regista cinese Zhang Yimou nel 1988 ha tratto dall'opera di Mo Yan il film "Sorgo Rosso", ottenendo svariati premi e l'approvazione entusiasta dello stesso autore del romanzo. 

Nel 2012 Mo Yan riceve il Premio Nobel per la letteratura. La Einaudi ha pubblicato la trascrizione integrale della Nobel Lecture, assolutamente da leggere.