lunedì 4 novembre 2013

"Luce d'agosto" di William Faulkner

Afferma William Faulkner a proposito del suo romanzo "Luce d'agosto": «Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica». In "Luce d'agosto" l'autore prende le vicende di un'umanità apparentemente ordinaria, meschina, miserevole, e le sposta con intuizioni ed invenzioni letterarie - quelle invenzioni che ti fanno dividere la letteratura contemporanea tra un prima e un dopo Faulkner - sul piano del mito, dove le storie dei singoli si intrecciano e si rincorrono, in una costruzione della storia che si compie di pagina in pagina, di paragrafo in paragrafo, rivelata non da un autore che si pone al di sopra della storia, ma dal vocìo, dal racconto, dalle confessioni dei singoli personaggi, che creano a loro volta miriadi di meta-storie. Forze meta-narrative che vanno a tracciare i destini contrapposti di Joe Christmas, supremo anti-eroe che discende nell'Ade, e di Lena Grove, simbolo di rinascita nel perpetuo ripetersi della creazione.

Ancora una volta, leggo Faulkner ed ho l'impressione di trovarmi di fronte ad un'opera diversa, totale, universale.

Ancora una volta, le mie letture acquisiscono una consequenzialità che odora un po' di mistero. Acquistato in libreria quasi casualmente, ho letto "Luce d'agosto" subito dopo "Sorgo rosso" di Mo Yan, ed ho trovato tra i due autori una straordinaria continuità (Mo Yan ha messo Faulkner al primo posto fra gli scrittori che più hanno influenzato la sua opera).

Rispetto all'Adelphi in mio possesso, mi piacerebbe reperire "Luce d'agosto" nell'edizione Mondadori, quella con la prefazione di Fernanda Pivano e la traduzione di Elio Vittorini, anno 1972.

lunedì 19 agosto 2013

Mo Yan - Sorgo rosso - Mitologia della "canaglia"

Più volte Mao Tse-Tung usò il termine "canaglia" riferendosi al popolo cinese che non si riconosceva nei valori fondanti della Repubblica Popolare. Quella canaglia diventa protagonista di "Sorgo rosso" del premio Nobel alla letteratura 2012 Mo Yan, in una celebrazione eroica che si spinge fino alla mitopoiesi: Mitopoiesi della canaglia appunto, o creazione di un anti-mito, rappresentata dalla figura del comandante Yu e sintetizzata nella trovata letteraria magistrale della battaglia tra uomini e cani, dove i cani fanno strategia militare ed acquisiscono coscienza al pari degli uomini, se non meglio. 
La destrutturazione della narrazione rende la lettura non facile, ma ripaga ampiamente nel fascino restituito dallo scorrimento di tanti piani narrativi intorno ad un unico magma storico che si estende per gran parte del XX secolo, toccando la sanguinosa guerra sino-giapponese e la nascita della Repubblica Popolare Cinese. 
Con un io narrante mai agente né pensante, se non nel finale e nel momento in cui un fulmine riapre la fossa comune in cui sono sepolti uomini, donne, giapponesi, cinesi, e logicamente cani: insomma, quel che resta di un mondo eroico seppellito dall'egemonia culturale esercitata dai modelli borghesi europei (letterariamente, dalla concezione borghese del romanzo).
Tutta la vicenda si svolge fra i confini della regione di Gaomi. Lì, nella regione di Gaomi, un tempo cresceva il sorgo rosso, oggi sostituito dai "mostruosi fusti" di un sorgo "ibrido". Ibrido come quella cultura filo-occidentale che la nuova Cina ha adottato a modello, sostituendola con le sue immense e prestigiose tradizioni. E non a caso Mo Yan è il fondatore del movimento letterario della Ricerca delle Radici.

Il regista cinese Zhang Yimou nel 1988 ha tratto dall'opera di Mo Yan il film "Sorgo Rosso", ottenendo svariati premi e l'approvazione entusiasta dello stesso autore del romanzo. 

Nel 2012 Mo Yan riceve il Premio Nobel per la letteratura. La Einaudi ha pubblicato la trascrizione integrale della Nobel Lecture, assolutamente da leggere.

domenica 21 luglio 2013

Raffaele Viviani - Fravecature

Casualmente, in una pizzeria della mia città ho incontrato i versi del poeta e drammaturgo napoletano Raffaele Viviani. In un angolo, tra una veduta in bianco e nero del Golfo ed una cartolina antica raffigurante Via Toledo, intravedo una stampa ingiallita con un sonetto dal titolo "L'amicizia": semplice, immediato, musicalissimo.

A proposito della poetica di Viviani ricordo di aver letto qualche tempo fa un giudizio di Vasco Pratolini: "Viviani non sta alla finestra, ma sulla strada da dove nasce… e il popolo napoletano da pretesto diventa soggetto di poesia e, rappresentandosi, si rivela a se stesso, grida le proprie ragioni, si giudica e si conforta".

Con un pizzico di curiosità tento una ricerca sulla poesia di Viviani, ne trovo una probabilmente molto popolare (vista anche la numerosità delle interpretazioni e riletture teatrali) e decido di pubblicarla, anche per la drammatica attualità della tematica trattata. Nella poesia viene raccontata la vicenda di un muratore, Ruoppolo, caduto da un'impalcatura. Colpisce la potenza narrativa - direi cantautorale con 70 anni di anticipo - ed un sottile velo di humour presente in gran parte della composizione, che la rende geniale nella sua costruzione.

Ne riporto il testo, ed una interpretazione a mio parere magistrale del noto attore napoletano Nino Taranto, ringraziando infinitamente chi ha messo online questo pregevole reperto.

Fravecature (Raffaele Viviani)
All’acqua e a ‘o sole fràveca
cu na cucchiara ‘mmano,
pe’ ll’aria ‘ncopp’a n’anneto,
fore a nu quinto piano.
Nu pede miso fauzo,
nu muvimento stuorto,
e fa nu vuolo ‘e l’angelo:
primma c’arriva, è muorto.
Nu strillo; e po’ n’accorrere:
gente e fravecature.
– Risciata ancora… È Ruoppolo!
Tene ddoie criature! 
L’aizano e s’ ‘o portano
cu na carretta a mano.
Se move ancora ll’anneto
fore d’ ‘o quinto piano.
E passa stu sparpetuo,
cchiú d’uno corre appriesso;
e n’ato, ‘ncopp’a n’anneto,
canta e fatica ‘o stesso.
‘Nterra, na pala ‘e cavece
cummoglia ‘a macchia ‘e sango,
e ‘e sghizze se sceréano
cu ‘e scarpe sporche ‘e fango.
Quanno ô spitale arrivano,
la folla è trattenuta,
e chi sape ‘a disgrazia
racconta comm’è gghiuta. 
E attuorno, tutt’ ‘o popolo:
– Madonna! – Avite visto?
– D’ ‘o quinto piano! – ‘E Virgine!
– E comme, Giesucristo … ?!
E po’ accumpare pallido
chillo c’ ‘ha accumpagnato:
e, primma ca ce ‘o spiano,
fa segno ca è spirato.
Cu ‘o friddo dint’a ll’anema,
la folla s’alluntana;
‘e lume già s’appicciano;
la via se fa stramana.
E ‘a casa, po’, ‘e manibbele,
muorte, poveri figlie,
mentre magnano, a tavola,
ce ‘o diceno a ‘e famiglie. 
‘E mamme ‘e figlie abbracciano,
nu sposo abbraccia ‘a sposa…
E na mugliera trepida,
aspetta, e nn’arreposa.
S’appenne ‘a copp’a ll’asteco;
sente ‘o rilorgio: ‘e nnove!
Se dice nu rusario…
e aspetta e nun se move. 
L’acqua p’ ‘o troppo vóllere
s’è strutta ‘int’ ‘a tiana,
‘o ffuoco è fatto cénnere.
Se sente na campana.
E ‘e ppiccerelle chiagneno
pecché vonno magna’:
– Mammà, mettímmo ‘a tavula!
– Si nun vene papà?
‘A porta! Tuzzuléano:
– Foss’ísso? – E va ‘arapi’. 
– Chi site? – ‘O capo d’opera.
Ruoppolo abita qui?
– Gnorsì, quacche disgrazia?
Io veco tanta gente…
– Calmateve, vestíteve…
– Madonna! – È cosa ‘e niente.
È sciuliato ‘a l’anneto
d’ ‘o primmo piano. – Uh, Dio!
e sta ô spitale? – E logico.
- Uh, Pascalino mio! 
E ddoie criature sbarrano
ll’uocchie senza capi’;
a mamma, disperannose,
nu lampo a se vesti’;
e cchiude ‘a dinto; e scenneno
pe’ grade cu ‘e cerine.
– Donna Rache’! – Maritemo
che ssà, sta ê Pellerine.
È sciuliato ‘a ll’anneto.
Sì, d’ ‘o sicondo piano. 
E via facenno st’anneto,
ca saglie chiano chiano.
– Diciteme, spiegateme.
– Curaggio. – È muorto?! – È muorto!
D ‘o quinto piano. ‘All’anneto.
Nu pede miso stuorto. 
P’ ‘o schianto, senza chiagnere,
s’abbatte e perde ‘e senze.
È Dio ca vo’ na pausa
a tutte ‘e sufferenze.
E quanno ‘a casa ‘a portano,
trovano ‘e ppiccerelle
‘nterra, addurmute. E luceno
‘nfaccia ddoie lagremelle.


lunedì 17 giugno 2013

Il mio nome è Rosso

"Istanbul" mi ha dato la chiave di lettura di tutte le opere dell'autore turco Premio Nobel 2006 Orhan Pamuk: sia esso ambientato nella Istanbul del '500, o nel '900 di Ataturk, il romanzo di Pamuk rappresenta in primis l'esperienza autobiografica dell'autore. In Pamuk la Storia diventa una rielaborazione continua del proprio vissuto. Da questo punto di vista egli è un assoluto innovatore della forma romanzo.
"Il mio nome è rosso" non è un'eccezione: fra intrighi, amori, gelosie e tradimenti, Pamuk elabora un potente e complesso affresco di un momento cruciale della storia, dove l'estetica figurativa islamica a confronto con quella europea costituisce il tema conduttore dell'intera vicenda narrata. La vicenda personale dell'autore è chiaramente visibile (logico, se si conosce la sua biografia) nella rappresentazione della figura materna, nei rapporti fra i due fratelli Orhan e Sekvet, nella passione per la pittura (protagonista assoluta del romanzo), nella stupenda visita alle stanze del tesoro del Sultano (la mania quasi proustiana della "collezione" di Pamuk che poi diventerà centrale nel "Museo dell'innocenza").
Pertanto, la vicenda personale dell'autore viene calata nella storia: la contrapposizione ideologica ed estetica fra l'Islam Ottomano e l'Europa (l'embrione dell'Europa liberale rappresentato perfettamente dalla Serenissima Repubblica di Venezia e dalle sue ambitissime monete d'oro) è anche espressione del conflitto personale dell'autore, figlio della cultura europea ma nello stesso tempo così visceralmente attaccato alla sua nazione ed alle sue tradizioni. E' il dilemma della cultura turca, ed il grande desiderio di sintesi, oggi perfettamente attualizzato nelle proteste in Piazza Taksim e nel sogno di Pamuk e di tanti altri (me compreso) per un ingresso della Turchia nella Comunità Europea.

sabato 2 febbraio 2013

Ho avuto un emigrante in famiglia


Ho avuto un emigrante in famiglia, per l'esattezza mio padre, partito per la Germania Federale nel 1965, passato per Monaco, Dusseldorf, Colonia, ed infine per il cantone Sciaffusa in Svizzera. Per tornare in Italia nel 1973.
Anni ed appartamenti condivisi con altri Italiani come lui: Siciliani, Veneti, Calabresi. Quante storie si celavano dietro le tute sporche di migliaia di operai: c'era quello con moglie e figlio appena nato rimasti a Matera; quello che invece la moglie se l'era portata ed appena messo piede in terra germanica gli aveva fatto le corna; quello che si prese una brutta malattia venerea o quello delle Marche che faceva il comunista emancipato e poi venne messo dentro perché picchiava la fidanzata tedesca.
Storie che strappano spesso un sorriso, ma a cui si affiancano scorci più tristi di quella vita, fatta anche di discriminazioni verso un popolo considerato "arretrato", "sporco", "violento". Sì, negli Stati Uniti, in Germania, Francia, Australia e Svizzera, c'era una parte di popolo che diceva degli Italiani quello che oggi noi diciamo di tanti stranieri che vivono e lavorano in Italia. Ci volevano castrare, appendere nella pubblica piazza. In Australia una volta diedero fuoco a tutte le case abitate da Italiani in un'intera città. La sorte di Sacco e Vanzetti è molto più nota.
I racconti di mio padre, che visse in terra straniera comunque con serenità conquistando con onestà la fiducia dei "padroni di casa", hanno forgiato ed alimentato la mia fede Europeista ed internazionalista.
Provo profonda tristezza nel notare quanto qualunquismo xenofobo, quanto conformismo dell'odio si nasconde dietro le coscienze di molti: sentimenti a costo 0, figli della pigrizia mentale con cui ci si espone sui social network.
Nella efficacissima definizione di Ur-Fascismo, o "fascismo eterno", Umberto Eco pone un accento particolare sul cosiddetto principio del "populismo qualitativo", secondo il quale la risposta emotiva (anche minoritaria) di un gruppo di cittadini viene proclamata "voce del popolo". Come dire, 1000 tweet o 100 "Mi piace" a un post razzista sull'ultimo fatto di cronaca diventano la "voce del popolo".

"Bisogna creare uomini sobri e pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino ad ogni sciocchezza. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà" - Antonio Gramsci